
Bene immobile
Deborah Levy
Traduzione di Gioia Guerzoni
NN Editore, settembre 2024
240 pagine
15,00 euro (cartaceo)
6,99 euro (digitale)
Terzo volume dell’autobiografia in movimento, Bene immobile conclude (forse) il racconto dei primi sessant’anni della vita della scrittrice Deborah Levy, inserendosi in una linea netta di continuità rispetto ai due precedenti.
Tratto comune della trilogia, ad esempio, è una narrazione che non si limita mai al resoconto dei fatti puri e semplici, ma tende sempre ad ampliarsi attraverso continui riferimenti ad altri periodi, eventi o protagonisti della biografia dell’autrice.
Abbondano come sempre i richiami letterari, non solo delle amatissime Woolf, Duras, De Beauvoir, ma di autori e intellettuali di ogni tipo (da G. G. Marquez a Gertrude Stein, da Paul Éluard a L. May Alcott, da Elena Ferrante a Pedro Almodovar), dai quali Levy trae sempre grandi lezioni e con i quali intreccia una comunicazione vivida e proficua, come fossero interlocutori in carne e ossa.
Come gli altri due libri, Bene immobile non si presenta come una lettura semplice, ma anzi, si delinea come un testo non immediato, dai numerosi passaggi metaforici e simbolici, nel quale vari personaggi incontrati dall’autrice (meglio se per caso e una volta sola) o alcuni oggetti (come la chiave appesa a un albero di Central Park, le scarpe verde salvia o le lenzuola di seta) tendono ad assumere una valenza ‘altra’, a farsi portatori di significati ulteriori.
Di grande effetto è il dialogo con l’amica Agnes, nel quale la raggiunta consapevolezza di sé si concretizza nelle immagini del piedistallo o della donna che sta “in sella a un cavallo alto”:
“A un certo punto, Ruth le aveva detto che sembrava sempre sul piedistallo, o meglio “in sella a un cavallo alto”, e voleva farla scendere. Un cavallo alto. Per me era sempre bello vedere una donna su un piedistallo. Perché Ruth voleva che scendesse? Per andare dove? Perché mai bisognava tirare giù una donna da un cavallo? Ciclone Ruth.
Il cavallo, come il piedistallo, dovrebbe evocare arroganza o superiorità, ma in questo caso penso significasse che Agnes aveva intuito il proprio scopo nella vita, che faceva quello che “voleva fare nel mondo, cosa che a volte si chiama consapevolezza o tenere le redini del cavallo e guidarlo”
Anche in questo terzo capitolo dell’autobiografia prosegue poi la riflessione di Levy sulla figura della donna in quanto vittima secolare del patriarcato, sia nella vita reale che nella cultura. Di qui, il suo interrogarsi continuo circa la possibilità di creare un personaggio femminile che sia svincolato dal desiderio di compiacere un uomo e che riscatti tutte le donne umiliate dalla scrittura maschile che ha sempre cercato di “diluirne il potere e minarne l’autorità”.
Come suggerisce il sottotitolo dell’opera (anch’esso, comunque, metaforico), la vita dell’autrice è particolarmente movimentata: digerito il divorzio, raccontato nel precedente Il costo della vita, decollata la carriera letteraria, Levy si sposta tra Londra e New York, tra l’India e la Grecia, con tappe intermedie a Parigi e a Berlino, con il pensiero visita il Giappone e ogni tanto ritorna all’amato Sudafrica, terra natale mai dimenticata e rievocata nel primo Cose che non voglio sapere.
Dato che il filone narrativo principale si svolge nel passaggio dai cinquantanove ai sessant’anni, il libro diviene anche l’occasione per tracciare un bilancio esistenziale (si possono prendere ad esempio la pagina in cui la scrittrice enumera tutti gli addii della sua esistenza o le considerazioni sul sereno rapporto con le figlie ormai grandi), ma anche per prendere coscienza dei propri desideri e bisogni futuri.
Questi ultimi si concentrano prevalentemente intorno al sogno di una casa di proprietà (il bene immobile del titolo):
“Sì, volevo una casa. E un giardino. E della terra”
“La voglio più di ogni altra cosa”
“Mi porto dentro quella casa da tutta a vita”
Infatti, Levy vive ovunque in appartamenti non suoi, che tende a trasformare in altrettanti nidi o focolari, ma che comunque non le appartengono.
Per scrivere prende in affitto dei capanni, ai quali pure si sente legatissima, ma si trova a constatare che tutte le persone che frequenta possiedono un immobile (in qualche caso, anche più di uno), tranne lei.
Si lascia andare quindi all’idea fantasmatica di una villa, con un giardino, un melograno, delle fontane, un fiume e una barca chiamata Sister Rosetta (“come la cantante afroamericana, madrina del rock and roll”).
La saggezza dei sessant’anni le assicura comunque la capacità di accettare l’eventualità che potrebbe anche non effettuare mai l’acquisto del famoso “bene immobile” e di comprendere che i suoi libri resteranno nel tempo la sua proprietà di valore maggiore.
Grazie NN Editore per la copia in omaggio 🌺