Anna Luisa Pignatelli

Quando Gosto va in pensione, si sente assalire da un “senso di vuoto e inutilità”, che cerca di sconfiggere dedicandosi alla cura della sua proprietà e al campo tondo che le è adiacente.
Gosto è solo: non ha mai avuto amici (non ne ha cercati), sua moglie Zelia lo ha lasciato; sua figlia Mirella non lo ama, come lui non ha mai amato lei e neanche la notizia della sua gravidanza riesce a intenerirlo.
Da Zelia lo divide la visione del mondo: quanto lei è disincantata, pessimista, disillusa, tanto lui è fiducioso e positivo nei confronti del genere umano; pur nella sua tendenza all’isolamento, lui ha bisogno di credere nella bontà delle persone (“A lui bastava poter credere in alcuni di loro”) e lo fa con un’ostinazione ingenua, poetica, quasi romantica.
Eppure, chi vive intorno a lui non gli offre molti motivi per confermare questo ottimismo: i suoi vicini di casa sono pettegoli e spioni; gli abitanti del paese sono invidiosi perché ha ereditato il podere senza fare nulla; persino il giovane Nuccio, che lo ascolta con pazienza mentre gli racconta la sua vita, alla fine si rivela attento solo al guadagno materiale che può scaturire dal rapporto con lui.
Il libro, che inizia il giorno in cui Gosto si sveglia per la prima volta pensionato, descrive con uno stile semplice e pulito le giornate un po’ vacue del protagonista, che, non avendo grandi occasioni di godere il presente, si rifugia spesso nei ricordi del passato.
Ecco dunque spuntare nella memoria la temuta figura di Berto, il padre-padrone che, pur dichiarandosi antifascista, “era un tiranno” e lo umiliava apostrofandolo come ‘lo storto’; o la giovane Zelia, che lo aveva sposato poco convinta; Iris e Ombretta, le sue amanti; Silvana, la camiciaia; il Tagliaferri, l’opportunista datore di lavoro; il professor Papini, che credeva nelle sue doti intellettuali e gli aveva fatto da testimone di nozze; e Danilo, il padrino benefattore…
Questo breve romanzo, che per la desolazione sentimentale che circonda il personaggio e per lo stile asciutto della narrazione mi ha ricordato da vicino novelle e romanzi di Giovanni Verga di Federigo Tozzi, è un libro malinconico, che non concede spazio all’ottimismo, soprattutto per quanto riguarda i rapporti umani (in primis quelli familiari); un libro amaro, che ci induce a riflettere sulla solitudine in cui trascorriamo le nostre esistenze.
“Ogni mestiere però richiede la capacità di saper stabilire un rapporto d’intesa e di rispetto con gli altri; anche il mestiere di padre, rifletté Gosto, e Berto non l’aveva saputo fare. Neppure lui, e Mirella ne era la prova”.
Ringrazio Fazi editore per la copia in omaggio.