La maledizione della famiglia Flores

Angélica Lopes

“La vita è come un ricamo, figliola, i fatti si intrecciano e prendono una forma particolare. Se si fossero intrecciati in altro modo, il disegno finale sarebbe stato diverso. Ogni storia è unica, proprio come le tovaglie e i copriletti che ricamavamo in quei pomeriggi io e le tue parenti.“

Questa è la storia di un gruppo di donne vissute in Brasile negli anni ‘20 del ‘900 che, tentando di sfidare le rigide convenzioni sociali dell’epoca, si dedicano all’arte del ricamo e avviano un’impresa di successo. Se quest’arte è stata “importata” nel gruppo dall’esuberante Vitorina, ad organizzare e a svolgere il lavoro sono principalmente le Oliveira, dette Las Flores, colpite dalla maledizione di una zingara secondo la quale tutti gli uomini della famiglia sono destinati a morire prematuramente, per sette generazioni. 

Ricamare è per loro un modo, non tanto di guadagnare, quanto di rendersi indipendenti, di passare il tempo insieme, di conoscersi: “Quando si passa tanto tempo in silenzio accanto alle stesse persone, si sviluppa la capacità di riconoscere il loro stato d’animo dal ritmo del loro respiro. Persino quando eravamo distratte o prese dai nostri pensieri, io e le altre ricamatrici restavamo attente ai movimenti di tutte, come fossimo parte di un unico corpo”.

Ma diventa anche un modo per comunicare, per inviare messaggi in codice e richieste di aiuto: quando la giovane Eugenia viene allontanata dal gruppo perché costretta dalla famiglia a sposare “il Colonnello”, può continuare a dialogare a distanza con Ines Flores, condividere con lei la propria infelicità e coinvolgerla nel suo tentativo di fuga. 

Il velo ricamato in codice da Eugenia, che ne racconta in parte il triste destino, passa dalle mani di Ines alle donne della famiglia Flores, generazione dopo generazione, finché non arriva ad Alice, la più giovane, la più emancipata, che decide di continuare il ricamo e di raccontare l’epilogo della storia, ricamando una parte del velo anche lei. “Cent’anni dopo, il velo di Eugênia […] viaggiava nello zaino di Alice sul sedile di un autobus”.

Un grido di aiuto che attraversa i decenni del XX secolo e denuncia i soprusi subiti da una giovane donna, ieri come oggi e forse come domani, per cercare di fare in modo che fatti come quelli non si ripetano più:

«Siamo legate come i fili di un ricamo. La storia di Eugênia deve essere raccontata e ricordata perché non ci dimentichiamo di lei. È simbolico, lo so, ma questi piccoli gesti ci ricordano che dobbiamo sempre cercare la libertà e che persino nella sconfitta è nascosta una vittoria, perché c’è stata una lotta”.

Ringrazio mondadori.it per la copia che mi ha permesso di leggere in anteprima.

Pubblicità